Perché anche chi ama il rock dovrebbe andare a vedere Ghemon dal vivo

Ho iniziato ad ascoltare Ghemon su consiglio – indiretto – di Manuel Agnelli che, durante un XFactor interessante, assegnò ”Un temporale” ai Maneskin. Tratto dal suo ”Mezzanotte” del 2017, quello appena citato è un brano che colpisce a fondo l’ascoltatore che conosce quella sensazione di solitudine e di dispersione che si associa a certi stati d’animo. In ”Un temporale” liriche profonde si mescolano ad un ritmo suadente ma per nulla scontato, con una batteria che scandisce il grido che viene direttamente da dentro. Insomma, questa canzone l’ho amata da subito e pian piano ho deciso di approfondire la discografia di Ghemon, finchè, nel 2020, il suo ”Scritto nelle stelle” mi ha convinto ad andare a vederlo dal vivo. A settembre, sotto il cielo della Cavea dell’Auditorium Parco della musica di Roma.

Ghemon potrebbe sembrare a prima vista l’ennesimo rapper di cui non sentivamo il bisogno. Ma la verità è che di uno come lui c’era una vera e propria necessità nel panorama musicale italiano. Perché? Innanzitutto perché la sua musica non è trap. Non è it pop. Non è rap volgare. Non è qualcosa che avevamo già sentito. La musica di Ghemon è un piacevole mix di r’n’b all’americana e cantautorato all’italiana. Nelle sue canzoni, l’artista mescola testi che parlano di temi come l’amore, l’amicizia, la depressione, il sentirsi fuoriluogo, l’accettare sè stessi, l’uscire dagli schemi e tante tante altre storie in cui certe volte è impossibile non riflettersi. Ad accompagnare queste parole poi, non sono delle basi tutte uguali. C’è infatti un’intera band, come quella che Ghemon ha portato sul palco della Cavea: una band composta da Filippo Cattaneo Ponzoni alla chitarra(che avevo intervistato qui), Giuseppe Seccia alle tastiere, Valentina Gnesutta e Arya Delgado ai cori, Fabio Brignone al basso e Vincenzo Guerra alla batteria. Come per i concerti rock che molti dei lettori di questo blog – e la stessa autrice – sono abituati a frequentare, non è quindi venuta a mancare, mai, la qualità.

Ghemon ci ha stregati, facendoci commuovere, ballare, divertire, fantasticare.

Il concerto, dopo le risate fatte con Michela Giraud in apertura, ha preso il volo con la bellissima Questioni di principio, che canta il ”potrei farlo però non devo” più soddisfacente che mai. A seguire, brani nuovi e meno nuovi, come Ko e Adesso sono qui che hanno poi lasciato la strada a ”il bello deve ancora venire” di Buona stella. Abbiamo assaporato i versi più giovanili, con Quando imparerò e Cose che non ho saputo dire. ”Suonava quel pezzo alla radio” sulle note di Cosa resta di noi, dedicata alla fine di un’amicizia. Di amore invece si parla su Inguaribile e romantico, sull’amatissima Rose viola nonché su Due settimane. Ghemon sceglie di continuare alternando brani più ”vintage” come Pomeriggi svogliati e Criminale emozionale a brani dei quali è uscito un video pochi mesi fa come In un certo qual modo.
Un’anima viene dedicata al ragazzo che a Colleferro è stato barbariamente ucciso per aver cercato di proteggere un amico, ed è un gesto molto bello, in un’epoca tanto complessa.
Si torna poi alle good vibes con Champagne e Un vero miracolo, seguite da un mashup tra Fuori luogo ovunque e Nessuno vale quanto te che in modo diverso ma simile parlano del fondamentale atto di dare importanza a noi stessi.
Il bis vede Ghemon salutare un pubblico con il sorriso sulle labbra grazie a tre brani del 2017: Quassù, Magia nera e la canzone che vi citavo inizialmente, ovvero Un temporale. La pioggia per fortuna non è scesa stasera, ma la freschezza nell’aria è arrivata lo stesso, grazie ad un concerto diverso dal solito, sicuramente, ma ricco di spunti di riflessione e di un mood di indubitabile bellezza.

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